Pomigliano, fabbrica incerta

Posted on 27 febbraio 2009

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(kaf)

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Il piano di rilancio sbandierato all’inizio dell’anno non è mai cominciato. A maggio la Fiat ha confinato a Nola 316 operai scomodi. Ma soprattutto non ha ancora deciso che auto si produrranno in futuro nello stabilimento campano

La storia comincia a dicembre dell’anno scorso, quando l’amministratore delegato della Fiat, Sergio Marchionne, annuncia che lo stabilimento di Pomigliano d’Arco – cinquemila dipendenti – si fermerà per due mesi. Dal 7 gennaio al 3 marzo la produzione si arresterà per lasciare spazio a corsi di aggiornamento e ai lavori di ristrutturazione che dovrebbero rilanciare la fabbrica. Per dare maggiore risonanza all’annuncio la Fiat comunica che lo stabilimento campano verrà intitolato a Gianbattista Vico. Non per niente, questa è anche una storia di corsi e ricorsi storici.

La Kss di Arzano
Arzano, pochi giorni prima che a Pomigliano cominci la formazione. È qui che ha sede la Kss, Key safety system, centotre dipendenti che producono cinture di sicurezza. Prima di Natale i delegati sindacali hanno fatto un accordo con la dirigenza: gli operai rientreranno in fabbrica dopo le feste, ma nel frattempo una parte dei lavoratori sarà impegnata nell’inventario dei materiali. La mattina del 2 gennaio, gli addetti all’inventario si ritrovano i cancelli della fabbrica sbarrati. L’ingresso dello stabilimento è sorvegliato dal reparto celere. Un volantino affisso annuncia l’inizio delle procedure di cassa integrazione. Approfittando della pausa natalizia, i proprietari hanno portato via i macchinari più costosi e messo in liquidazione l’azienda. I camion con il materiale sono parcheggiati in un capannone preso in affitto ad Alessandria, in attesa che passi il blocco festivo per il trasporto pesante. «La Kss era un indotto Fiat – spiega un operaio –. Faceva cinture per Pomigliano, Termini Imerese e Mirafiori. L’azienda aveva nei magazzini le cinture per Termini e Mirafiori, la fermata di Pomigliano è stata il pretesto per chiudere tutto e spostarsi in Romania. Gli operai sono giovani, trent’anni di media; la cassa integrazione dura fino a dicembre, poi saranno a spasso. La loro fabbrica è stata la prima vittima del piano Marchionne».
Nel frattempo comincia la formazione a Pomigliano. «Il primo impatto è stato duro – racconta Gennaro, un operaio giovane, entrato in fabbrica nel 2000 –. Ci hanno fatto mettere addosso delle tute bianche. Ho detto al capo che la mia era piccola, non mi entrava. Ho avuto subito una contestazione. La prima settimana ci hanno fatto un corso sui comportamenti: non fare tardi la mattina, non essere aggressivi… La seconda settimana ci hanno messo a ripulire la fabbrica, abbiamo tolto il materiale che stava lì da anni, abbiamo ridipinto i pavimenti e le cose rotte: una sciacquata di faccia, come si dice a Napoli. Tutto questo in un clima di tensione, con i vigilantes che ci seguivano anche in bagno».
«La formazione è stata una farsa – conferma Gaetano, a Pomigliano dal 1999 –. Non si può fermare due mesi la fabbrica per fare interventi così parziali. Non hanno aggiustato niente. L’Alfasud ha impianti vecchi di quarant’anni. La sicurezza è a rischio: i carrelli vanno oltre la velocità consentita, dalle tettoie quando piove cola l’acqua nello stabilimento».
«A dicembre Marchionne ha annunciato un investimento di settanta milioni di euro, ma finora ne ha spesi solo il sessanta per cento – dice Gerardo Giannone, segretario della sezione di fabbrica dei comunisti italiani –. Hanno fatto passare due mesi di fermo produzione come una ristrutturazione, ma in realtà abbiamo solo verniciato, ripulito, spazzato a terra. Abbiamo spostato il reparto finizione vicino al montaggio. Qui c’è stato l’investimento maggiore, ma nei reparti lastratura e verniciatura gli investimenti sono stati minimi. La fabbrica è migliorata solo in un aspetto. Prima facevamo tre turni e 720-730 macchine al giorno. Oggi con due turni arriviamo a 690-700 macchine al giorno. C’è stata una specie di organizzazione forzata. A gennaio abbiamo avuto una media di duecento contestazioni al giorno. Se uno si alzava per andare a bere gli contestavano che non aveva l’autorizzazione. Se chiedevi di andare in bagno e ti fermavi a bere ti rimproveravano. Tutto così».

Nola, il reparto confino
Ma la storia è appena cominciata, il bello – o il brutto – deve ancora arrivare. A un certo punto, mentre continuano i corsi, 316 operai ricevono una comunicazione in cui si annuncia, solo a loro, che dovranno fare altri due mesi di formazione. «Noi sapevamo che erano solo due mesi – racconta Gennaro –. Poi ci arriva questa lettera che ci dice che dobbiamo fare altri corsi nei locali dell’Inail di Napoli. Tutti noi del sindacato Slai Cobas abbiamo avuto la lettera. Ci guardavamo in faccia nel reparto, ed eravamo tutti gli iscritti o quelli che si erano rivolti allo Slai».
In effetti, il provvedimento dei 316 riguarda solo alcune, mirate categorie di lavoratori. Gli appartenenti al combattivo sindacato dello Slai Cobas appunto, ma anche lavoratori con limitate capacità a causa di invalidità e lavoratori considerati indisciplinati.
La prima settimana devono sorbirsi un altro corso di teoria comportamentale, tenuto da “esperti” milanesi specializzati nel settore. Poi comincia un ciclo sulla sicurezza, ma all’inizio della terza settimana tutto si ferma. L’incertezza sulla propria sorte, la tensione dell’attesa e i cattivi presagi   paralizzano i corsi. Finalmente la Fiat annuncia che i 316 sono destinati a Nola, dove verrà decentrata la logistica. Gli scioperi cominciano il 10 aprile, con adesioni del cento per cento. Lunedì 14 vengono bloccate le merci ai cancelli, in entrata e in uscita. La fabbrica si ferma. Il giorno dopo la Fiat fa sgomberare i picchetti dalle cariche della celere. Il 16 c’è un incontro all’Unione Industriali di Napoli. A piazza dei Martiri scoppiano tafferugli tra rappresentanti di diverse sigle sindacali che attendono l’esito dell’incontro. La polizia carica, un operaio rimane ferito. Alla fine l’azienda non cede. Il 5 maggio i 316 cominciano il primo giorno di lavoro nel polo logistico di Nola.
«Quel reparto si poteva benissimo lasciare a Pomigliano – dice Gerardo Giannone –. Lo spazio c’è, ci sono i capannoni, la ferrovia che entra nello stabilimento, sei varchi di entrata con tre bilance per i camion. Ma alla Fiat fa comodo creare un posto del genere. Adesso in fabbrica c’è lo spauracchio di Nola. Fai il cattivo? Non fai quello che dice il tuo capo? Te ne vai a Nola. Da un giorno all’altro. L’hanno fatto già in cinque casi, ora a Nola sono diventati 321».
Negli anni Settanta a Mirafiori esistevano i “reparti confino”. In Campania alla fine degli anni Ottanta, quando la Fiat acquisì l’Alfa di Pomigliano, vennero create le cosiddette Upa, unità produttive autonome, reparti distaccati nei comuni del napoletano in cui venivano trasferiti i lavoratori invalidi e sindacalizzati. Antonio Tammaro, coordinatore provinciale dello Slai, ha vissuto l’esperienza di quei reparti. «Lavoravo all’Alfa – racconta –. Mi trasferirono a Casalnuovo, altri li mandarono a Casandrino, a Giugliano. Dopo sei mesi cominciarono le ristrutturazioni e i licenziamenti. Le Upa venivano cedute ad aziende consociate o a fornitori Fiat. Io sono stato a Casalnuovo dall’89 al ‘94. Nel ‘91 la mia Upa passò a Sepi Sud, una consociata Fiat che faceva sedili. L’accordo prevedeva cassa integrazione per un anno, poi mandarono in mobilità 138 operai su 350. Ci trasferirono a Caivano e la Sepi diventò Liar corporation, una multinazionale che produce sedili per auto, anche lì ristrutturazioni e mobilità. Io sono uscito nel 2004 con la mobilità lunga per mia scelta».
«Quando un’azienda ritiene di avere degli esuberi – continua Tammaro – è più facile liberarsi degli operai politicizzati se devi scegliere tra trecento piuttosto che tra cinquemila. In questo senso, il polo di Nola serve a fare delle preselezioni. Nei 316 rientrano l’ottanta per cento degli iscritti allo Slai Cobas di Pomigliano. È un grosso attacco al nostro sindacato».
«A me l’hanno comunicato cinque minuti prima della fine del turno – racconta Silvestro Agrippino, uno dei 316 –. Sono invalido a un braccio a causa di un incidente avvenuto quattro anni fa. Prima stavo al montaggio, poi mi hanno messo al controllo qualità che è un lavoro che si fa con gli occhi e con la testa. A Nola il fabbricato è ancora un cantiere, ci sono delle aree transennate. E poi fa un caldo infernale. I beverini non funzionano e le persone invalide cominciano a sentirsi male. All’interno non c’è un pronto soccorso. Quando succede qualcosa chiamano l’ospedale di Nola e ci vuole mezz’ora prima che arrivino i soccorsi. Ma soprattutto non abbiamo garanzie sulla continuità del nostro lavoro».

Il piano che non c’è
Attualmente lo stabilimento Gianbattista Vico produce tre tipi di auto: l’Alfa 147, l’Alfa Gti e l’Alfa 159. Le prime due sono di segmento C, il più venduto in Europa, mentre la 159 è di segmento D, una fascia medio alta. Ma sono auto vecchie, la 147 a ottobre compirà nove anni dall’immissione sul mercato. «Il problema vero – dicono gli operai – è la mancanza di un piano produttivo. Non sappiamo che macchine costruiremo in futuro. Un accordo del 2003 stabiliva che qui si sarebbero prodotti tutti i marchi Alfa Romeo. Ma due anni fa l’accordo è saltato. A giugno la Mirafiori di Torino comincerà a produrre l’Alfa Mito. La 149 forse si farà a Cassino. Lo stabilimento di Melfi lavora, a Termini Imerese si investono 360 milioni di euro. Solo noi non abbiamo auto nuove da produrre. La Fiat ha detto che fino a dicembre non è prevista nessuna cassa integrazione. Ma ad agosto lo stabilimento chiude per ferie per quattro settimane. Era da dodici anni che non accadeva».
Gerardo Giannone ha 34 anni. Suo padre faceva l’operaio in Fiat. Lui è entrato in fabbrica nel gennaio del 2001 con un contratto a termine insieme ad altri trecento. Dopo nove mesi sono stati licenziati per mancato rinnovo. È rientrato nel 2002 con un contratto interinale di cinque mesi. È stato riassunto nel 2003 con un contratto a termine che poi è diventato a tempo indeterminato nel febbraio 2004. La sua generazione è l’ultima arrivata in fabbrica. Negli ultimi sette anni sono entrate 2300 persone con contratti interinali o a termine, poi trasformati in contratti a tempo indeterminato. A Pomigliano c’è la classe operaia più giovane degli stabilimenti italiani dell’azienda torinese. Più del cinquanta per cento sono diplomati. «Ma i nostri genitori – dice Giannone – avevano chiaro che le condizioni di vita dovevano migliorare e che la dignità non doveva essere offesa. Oggi si tende a credere che debba esserci sempre qualcuno che fa la lotta al posto nostro. Il sindacato serve per farmi togliere la contestazione, per farmi dare un giorno di ferie o al limite per farmi assumere. I vecchi operai sono stanchi. Mio padre è andato in pensione nel 2004. I più anziani della fabbrica sono stati assunti nel 1988».
Ma come gli operai, sono giovani anche i dirigenti intermedi, i caposquadra, i gestori operativi. Pomigliano ha aperto i battenti nel 1973. I dirigenti di allora non ci sono più. I nuovi hanno meno di trent’anni, poca esperienza in fabbrica e molte responsabilità nel processo produttivo. «Quando in una fabbrica non c’è da produrre – spiega Giannone, pensando a Pomigliano – i dirigenti intermedi vanno sotto pressione e scaricano le responsabilità sugli operai. L’anno scorso ci sono stati 170 scioperi nello stabilimento, fermate brevi, anche solo di mezzora, perché il capo aveva risposto male a un operaio o aveva fatto una contestazione stupida, per i bagni sporchi o altre questioni di sicurezza».
Oggi Pomigliano ha 5700 dipendenti. Da poco la Fiat ha inglobato 700 lavoratori DHL del settore movimentazione materiali. A questi si aggiungono i 3000 dell’indotto. La fabbrica si estende su sei chilometri quadrati. Venti capannoni industriali, tre milioni di metri cubi di cemento, centosettantamila auto in un anno. Da gennaio, con il nuovo corso, gli scioperi interni sono diminuiti. Ci sono stati scioperi di otto ore per alcuni licenziamenti, poi rientrati, e per il trasferimento del polo logistico. Anche i dirigenti nazionali, in un incontro a Roma, hanno rilevato come a Pomigliano ci sia meno assenteismo, meno scioperi. Potrebbe essere uno stabilimento modello, dal loro punto di vista. Eppure, non decidono ancora quali auto dovrà produrre in futuro. In compenso, gli incidenti sono quasi quotidiani. «Due giorni fa – racconta Giannone – un operaio, pressato dal capo, si è fratturato la spalla, il braccio e la gamba sinistra per spostare i contenitori dei motori che gli sono caduti addosso. All’esterno dei reparti ci sono ancora lavori in corso, questo vuol dire spazi più stretti per movimentazioni più veloci. La commissione sicurezza non esiste, ci sono gli Rsl, rappresentanti sicurezza lavoro, ma se parlano troppo rischiano di tornare a lavorare sulla postazione».
«Io ho subito solo un paio di infortuni lievi – racconta Gennaro, che è finito a Nola anche lui –, ma c’è chi ha perso un dito e non ha denunciato. Noi chiediamo che ogni operaio abbia il cartellino sulla sua postazione, in modo da conoscere le operazioni che deve fare e i tempi stabiliti per ogni operazione. I capi invece non ti mostrano mai il cartellino, in questo modo possono cambiare i tempi a loro discrezione. Le cadenze aumentano e accadono gli incidenti, ma molti hanno paura di denunciarli».
«Da gennaio si potevano denunciare una quarantina di articoli 28, atti anti-sindacali – conclude Giannone –, bastava che ne facessero uno, che licenziassero un dirigente, le cose sarebbero cambiate. Ma i sindacati non hanno voluto. Fatti fuori quelli di base, i confederali pensano solo a sopravvivere. Non impugnano mai le decisioni dell’azienda. In questo clima di incertezza, la paura ti fa accettare tutto. Se chiude la Fiat, finirebbe a spasso tanta gente». (luca rossomando)